La democrazia secondo Reggio Emilia. Conversazione con Massimiliano Panarari

La crisi della democrazia rappresentativa e nuove proposte di democrazia partecipativa

    Potremmo definirli lezioni di democrazia partecipativa aperte a tutta la cittadinanza, gli incontri con esperti organizzati dal Comune di Reggio Emilia dal titolo “La democrazia secondo noi”, alla seconda edizione, che affrontano i temi della cittadinanza attiva, della partecipazione, dei beni comuni.

    Abbiamo raggiunto Massimiliano Panarari, politologo docente dell’Università Mercatorum e coordinatore del programma di incontri, per fargli qualche domanda in vista della nuova serie, un percorso che nasce a sostegno della definizione di nuovi organismi di partecipazione territoriale e che vuole avvicinare i quartieri e le comunità al governo della città.

    Professor Panarari, il programma colpisce sin dal titolo, perché quella precisazione, “secondo noi”? 

    Il tema è quello della crisi della rappresentanza e del deficit di legittimazione democratica che è un problema generale delle democrazie rappresentative. È l’esito di una serie di trasformazioni profonde in cui si sono saldati molti fenomeni: la disintermediazione che inizia in ambito commerciale ed economico e si trasferisce sul piano politico; il cambiamento delle fonti mediali, sempre più orizzontalizzate, alle quali si attinge; la polarizzazione del discorso pubblico, che corrisponde a una logica mediale diventata sempre più pervasiva e che soddisfa, da una parte, una modalità di funzionamento dell’ecosistema mediale stesso e, dall’altra, incontra le attese del pubblico; la frammentazione dei pubblici; il populismo come fenomeno politico, la crisi di credibilità, almeno parziale, delle classi dirigenti democratiche.

    Come accade in certe fasi storiche, la stratificazione di questi fenomeni non pianificata produce la tempesta perfetta. Ci troviamo dentro una tempesta che inizia a manifestare i primi segni nella seconda metà degli anni ‘70, che poi si proietta in maniera esponenziale all’interno del cambiamento del contesto economico determinato dal neoliberismo.

    Siamo di fronte a dei fenomeni planetari, esasperati dalle plurime crisi che stiamo vivendo da qualche tempo – la crisi finanziaria del 2008 e del 2011, cui è seguita la crisi sanitaria e poi la crisi bellica che stiamo vivendo in questi giorni. Non esistono purtroppo ricette per ricostruire facilmente la credibilità degli istituti democratici e ripristinare il circuito virtuoso della fiducia nell’opinione pubblica.

    Quel “secondo noi” va inserito nel percorso che l’Amministrazione comunale di Reggio Emilia e soprattutto l’assessore Lanfranco de Franco hanno avviato in città e va interpretato in una chiave di grande modestia, di un punto di vista parziale, molto limitato e circoscritto, locale, per cercare di delineare un percorso di arricchimento, di comunità educante e di individuazione di alcuni spunti che vengono portati alla riflessione da alcuni studiosi e specialisti di valore.

    “La democrazia secondo noi” è un ciclo democratico, ma che ribadisce l’importanza degli specialisti e dei sistemi esperti e competenti per individuare elementi di riflessione collettiva.

    La crisi della fiducia infatti richiede la ricostruzione di questa dimensione immateriale all’interno del mondo dei cittadini, dell’opinione pubblica, dei cittadini elettori che sono anche consumatori, fruitori delle piattaforme digitali e protagonisti di quella autocomunicazione di massa, da cui sicuramente è derivata una grande libertà e un grande repertorio di opportunità, ma nel contempo anche un’intensificazione dell’incivility e della polarizzazione all’interno del discorso pubblico.

    Abbiamo imparato dal ciclo di lezioni precedente che ci sono diversi tipi di democrazie, qual è il suo punto di vista su queste diverse democrazie e quali sono quelle più in crisi di fronte alla tempesta perfetta che ha appena descritta?

    Il modello di democrazia cui noi ci rifacciamo è quello che potremmo chiamare il “modello base” – quello della democrazia rappresentativa -, che costituisce un paradigma tipico dei regimi politici occidentali e nasce con le rivoluzioni liberali settecentesche. Su questo sistema si possono innestare (proseguendo con la metafora) una serie di “accessori”, i quali servono a far sì che la democrazia procedurale, cioè quella fondata sostanzialmente sulla dimensione elettiva, si integri sempre di più con una serie di aperture nei confronti della partecipazione popolare per un verso e, dall’altro, possa modernizzarsi e trasformarsi in relazione ai mutamenti della società. Un processo complicato e faticoso, soggetto a molti stress-test  e a molte forme di conflitto, perché nella storia l’allargamento dei diritti non è mai indolore.

    Sul modello liberal-democratico si è innestata una serie di ondate di democratizzazione – come le ha chiamate Thomas Marshall – che hanno portato all’inserimento di sempre maggiori diritti civili e di diritti sociali, fino a che questi secondi hanno celebrato quella che è stata la loro stagione più importante, con  la strutturazione dei sistemi di protezione sociale e il loro ampliamento, ovvero il welfare state, che però ha cominciato a entrare in crisi nella metà degli anni 70. 

    Ciò è accaduto per diverse ragioni, una è stata la sostenibilità di bilancio, collegata alla crescita dell’economia: in quegli anni, con l’ingresso degli Stati Uniti nella dinamica economica letale della stagflation, cioè della compresenza di stagnazione e inflazione – che è il grande rischio che stiamo correndo anche in queste settimane –  la sostenibilità di bilancio è diventata via via sempre più complicata, anche perché il welfare state si è allargato integrando istanze, aspettative, domande, sempre più complesse e plurali, differenziate e personalizzate, e dunque sempre più costose.

    L’altro elemento è la crescita delle disuguaglianze, con la conseguente crisi fiscale degli Stati, cioè una ripartizione via via sempre più iniqua dal punto di vista della partecipazione alla fiscalità generale da parte di un gruppo di soggetti che – semplificando estremamente – sono diventati via via più ricchi e hanno ottenuto una fiscalità sempre più favorevole, nel momento in cui invece la fiscalità generale andava a pesare sempre di più sulle classi medie, mettendo in crisi quel principio di progressività e proporzionalità che sta a fondamento della democrazia sostanziale.

    Tutto questo ha cominciato ad inceppare la dimensione sociale delle democrazie liberali e la possibilità di far crescere i diritti sociali, a fronte di un’opinione pubblica sempre più demanding in questo senso, e arrivando sino a bloccare l’ascensore sociale.

    La crisi del modello ottimale, ovvero quello della democrazia liberale su cui si innesta il welfare state e si intensificano i cosiddetti istituti di democrazia diretta – come il referendum –  ha portato come reazione larghi settori dell’opinione pubblica a pensare che il sistema dovesse andare nella direzione della democrazia diretta. Ma la democrazia diretta di per sé non funziona, soprattutto non esiste, in maniera particolare nelle società complesse.

    La visione giusta e opportuna, non a caso molto presente nei nostri padri costituenti che appartenevano a culture politiche differenti, della necessità di introdurre a correttivo e potenziamento della democrazia rappresentativa una serie di istituti di democrazia diretta si è tradotto in una sbornia ideologica di direttismo democratico, ovvero nell’idea che improvvisamente fosse possibile, di fronte alla crisi di fiducia nella delega democratica, dare vita, non si bene come, a democrazie senza rappresentanti. 

    Nel caso specifico italiano, questo passaggio si colloca storicamente nel momento della crisi di sistema che ha corrisposto al ricambio eterodiretto delle classi dirigenti degli anni di tangentopoli, dove gli eredi del modello dei partiti di integrazione sociale ideologica di massa sono stati spazzati via dall’azione giudiziaria.

    La crisi della democrazia rappresentativa e la crisi di fiducia nei partiti ha prodotto due format: da un lato, quello del “partito personale” che prevede un’altra forma di delega che prevede l’idea di una sorta di relazione diretta di tipo plebiscitario con un leader. Tale rapporto corrisponderebbe ad una forma di relazionalità diretta, che supera le mediazioni della democrazia…un grande abbaglio e, in termini siffatti, una dimensione non precisamente democratica.

    Dall’altro, è sorta l’idea della possibilità di formule politiche che superassero la forma partito nella direzione del movimento – altra dimensione nebulosa, tutt’altro che definita – in cui diventerebbe possibile l’esercizio dell’azione diretta da parte dei partecipanti. Sotto questo profilo, l’Italia rappresenta un caso praticamente unico in Europa, è un grande laboratorio di politiche populiste, perché storicamente ha avuto una democrazia rappresentativa più fragile di altre.

    Queste due soluzioni sono state ritenute entrambe più aderenti alla possibilità della partecipazione popolare, quando in verità non è così.

    In questo scenario, concretamente come si esprime una relazione tra la democrazia rappresentativa e la democrazia partecipativa?

    Questo è il grande nodo, credo che la democrazia partecipativa possa essere una dimensione meglio sperimentabile, meglio rendicontabile, quindi anche più soddisfacente sia per le istituzioni che per i cittadini, anche a livello locale. Anzi, la democrazia partecipativa costituisce una formula effettivamente realizzabile e implementabile in termini di democrazia locale, perché il rapporto tra il livello del governo del territorio e la vivibilità, la sperimentazione democratica, la partecipazione sul territorio è più controllabile.

    A livello territoriale, quella dimensione fondamentale della democrazia rappresentativa che è il “corpo intermedio”, può funzionare, può raccogliere persone ed essere maggiormente vissuto ed esperito anche da parte dei cittadini.

    Diventa in tal modo più facile integrare all’interno di livelli decisionali intermedi – quelli che un tempo erano le circoscrizioni e che nel nuovo regolamento comunale sono le Consulte di quartiere – quelle istanze che vengono dal territorio.

    Veniamo a Reggio Emilia, qui l’amministrazione comunale sperimenta un protocollo collaborativo che si fonda sulla capacità del singolo cittadino di impegnarsi per il bene comune. Questa è democrazia?

    Assolutamente sì, una formula di democrazia locale e partecipativa che si inserisce in un quadro di democrazia rappresentativa, anch’essa locale, perché la democrazia rappresentativa ha articolazioni territoriali, che si esprimono nei vari livelli ed enti territoriali di governo e di rappresentanza: in primis, la giunta e consiglio comunale.

    Reggio Emilia sperimenta una modalità, all’interno del quadro della democrazia rappresentativa, che cerca di saldare le istanze, i bisogni, le domande provenienti dal  territorio, responsabilizzando i cittadini; e che va nella direzione di corrispondere a quella domanda, certamente forte, che invoca la democrazia diretta, chiedendo però, altresì, un’assunzione di responsabilità nei termini di un contributo concreto che viene portato al processo democratico e decisionale da parte dei cittadini.

    Un piccolo passo indietro: una cosa che connota la generica invocazione di direttismo democratico è il fatto che tutto si esaurisce in un click; e, dunque, un’istanza che è giusta in astratto non trova punti di caduta e di realizzazione. Nel momento in cui chiedo di partecipare a un processo decisionale devo anche dare la mia disponibilità concreta a a contribuire a esso, altrimenti ci ritroviamo in una dimensione di neoplebiscitarismo telematico, fungibile sia nel primo che nel secondo tipo di partito che abbiamo detto, modelli che vanno in direzione antitetica, nel loro nucleo concettuale, rispetto alla democrazia rappresentativa. 

    Abbiamo assistito in questi ultimi tempi a un potenziale cortocircuito tra democrazia e competenze, in questo contesto la democrazia partecipativa è capace di incidere sui risultati di governo?

    Il nodo della competenza è fondamentale e a livello generale, da qualche anno a questa parte, rimanda al tema potenzialmente conflittuale della relazione tra democrazia e tecnocrazia. Ed è un problema nel senso che questo conflitto ha preso le forme del rifiuto della competenza sic et simpliciter nelle varie declinazioni politiche e culturali dei populismi, dove la complessità viene semplicemente rimossa in termini di semplicismo, fornendo proposte apparentemente risolutive che si basano su un atto di fede, per esempio un atto di fede nei confronti di un leader forte, un atto di fede nei confronti di policy che in realtà sono grandi semplificazioni di questioni complesse, e che non a caso – pensiamo ai fenomeni migratori – una volta applicate non producono i risultati promessi.

    C’è poi tutto il ventaglio di problematicità che riguarda il modello tecnocratico, dove si può fare strada la convinzione che la democrazia con le sue complessità e le sue inevitabili lentezze, rallenti la formulazione di una decisione; e che ciò, di fronte alla velocità dei cambiamenti, costituisca un problema da rimuovere. Convincersi cioè della necessità di sospendere la democrazia, di fatto, invece che andare a risolvere le questioni collegate al conflitto politico.

    Il governo tecnico tuttavia prevederebbe un contributo creativo, non distruttivo, da parte dei partiti che sostengono la formula della temporanea sospensione del conflitto dialettico regolamentato e la formula della unità nazionale.  Un contributo che diventa ancora più rilevante in condizioni emergenziali: la pandemia e la guerra dall’esterno aggravano la crisi interna e questo richiederebbe non la propaganda dei partiti, ma l’individuazione di soluzioni responsabili da proporre ai cittadini in attesa di tornare alle urne. 

    C’è un problema che è diventato sempre più urgente anche a livello locale, cioè il fatto che i cittadini siano cittadini competenti e cittadini che fanno parte di una comunità educante, il che vuol dire un ulteriore investimento cognitivo da parte loro.

    La partecipazione a  processi decisionali, per la parte che compete ai cittadini, non si risolve con la sottoscrizione di un flag sì/no in un ipotetico referendum telematico, ma richiede la loro partecipazione in termini di discussione e in termini di azione ad un processo.

    È quindi importante che le istituzioni locali veicolino informazioni e diano ai cittadini una base di competenza. Questo è il modello della democrazia deliberativa, come ulteriore correttivo rispetto al modello della democrazia liberale.

    È necessario che i cittadini partecipino a momenti di crescita collettiva, che acquisiscano informazioni; e il ciclo di incontri “La democrazia secondo noi” si inserisce precisamente nel solco di questa idea di fornire argomenti di dibattito,

    altrimenti rischiamo di far sì che i nostri inevitabili e naturali bias psicologici, sempre più forti e più radicati, diventino una corazza danneggiando il modello partecipativo che prevede che ci si confronti, si trovino soluzioni comuni, e si forniscano ai decisori delle idee che nascono proprio dal confronto.

    La democrazia locale funziona anche nel momento in cui le istituzioni forniscono delle piattaforme cognitive in maniera da far crescere complessivamente il dibattito e il discorso pubblico.

    Ringraziamo il professor Panarari per l’agile e ricco resoconto e ricordiamo che la partecipazione a “La democrazia secondo noi”, in programma per quattro giovedì dal 14 aprile al 5 maggio, è libera e aperta a tutta la cittadinanza.

    > Leggi anche La democrazia secondo Reggio Emilia. Incontri aperti su democrazia e partecipazione, per decidere meglio il futuro

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