Reggio Emilia, tradizionalmente aperta alle diversità, vuole essere una città “di tutti”, dove nessuno si senta estraneo. Ma che cos’è l’intercultura e come si realizza concretamente l’integrazione tra persone e gruppi di differenti culture? Ecco come nei quartieri di Reggio Emilia, con il protagonismo di cittadini e associazioni, l’intercultura è una pratica reale, che diventa incontro, scambio, relazione.
Se le politiche interculturali attraversano tutti gli ambiti dell’amministrazione cittadina, che si realizzano in sinergia con la fondazione Mondinsieme, la sfida del dialogo e della convivenza, una sfida di importanza decisiva per la società, per la sua apertura al futuro, si esprime a Reggio Emilia fortemente dal basso, nel quotidiano, con un grande impegno di persone e comunità, di cittadini volontari e associazioni.
Nei Laboratori di cittadinanza di ‘Quartiere bene comune’ il bisogno di integrazione è emerso trasversalmente nei diversi territori e si è tradotto in svariati progetti che vedono istituzioni, associazioni e cittadini volontari collaborare per promuovere la relazione e lo scambio tra persone di diverse culture e provenienze, trasformando le diversità in opportunità di carattere educativo, economico, sociale e culturale.
Da alcuni mesi in diversi quartieri di Reggio sono in corso le attività partecipative che vedono capofila Filef Reggio Emilia, storica associazione con diverse sedi in Italia e nel mondo, che dal 1970 accompagna i lavoratori emigranti e le loro famiglie e che a Reggio si distingue per il suo impegno anche sul fronte dell’immigrazione.
Secondo la visione del suo fondatore Dante Bigliardi, è importante lavorare sui due fronti, accomunati dagli stessi problemi di accoglienza, casa, lingua, lavoro, e mantenere viva la memoria e la storia dei nostri connazionali emigrati all’estero, per migliorare le condizioni di vita degli immigrati, nel riconoscimento di diritti e doveri.
“Il primo strumento di integrazione è la lingua- spiega Laura Salsi, presidente gentile di Filef Reggio Emilia, che incontriamo nel quartiere Gardenia, nella sede di CSV Emilia, proprio mentre sono in corso le lezioni di italiano in una classe di giovani donne provenienti da ogni angolo del mondo: Cile, Egitto, Mali, Ucraina, Vietnam, Marocco .





“Il nostro insegnamento dell’italiano, tutt’altro che tradizionale, affianca la didattica della lingua con conoscenze e strumenti utili per inserirsi nella comunità: da come fare la spesa, con tanto di parte pratica al supermercato, a come compilare un curriculum, da come fare per avere la tessera della Biblioteca, alla visita del Museo del Tricolore.
“Oltre che all’insegnamento dell’italiano – racconta Laura – ci dedichiamo a laboratori, doposcuola ed altre attività di sostegno per le famiglie e allo sviluppo di progetti culturali come “Matilde nel mondo”.
Per Filef è essenziale poter adattare gli strumenti alle persone e ai loro bisogni: ascolto, relazione, scambio, ci consentono di approfondire la conoscenza dei partecipanti alle attività che proponiamo e costruire per ciascuno di loro un percorso di vera crescita, incentrata sui valori della solidarietà e del rispetto”.
Ci spostiamo nella classe di italiano B1, composta di sole donne, molte laureate nei loro Paesi, che hanno voglia di emanciparsi attraverso la lingua, di inserirsi nel mondo del lavoro: Yulia, insegnante di inglese venuta nel 2019 dall’Ucraina con due figli, adora la melodia della lingua italiana e vuole migliorare perché, confessa divertita, “così i miei figli smettono di correggermi e posso correggere io loro! E poi sapere la lingua mi aiuta a conoscere i genitori fuori dalla scuola, ad avere nuovi amici”.



Viene invece dal Vietnam Anna, che ha vissuto con il marito e i suoceri italiani a Salerno, ha sempre parlato inglese, ma da quando si è trasferita a Fogliano ha voluto cambiare abitudini: “questo corso e i suoi insegnanti mi hanno dato tante informazioni e occasioni per muovermi in città! Ho trovato qui delle amiche con cui parlare e ora che sento un po’ più di confidenza con l’italiano, ho iniziato a parlarlo con mio marito e le mie due bambine. Ora mi sto godendo la mia vita nuova”.
“Voglio studiare la lingua per rispetto di questo Paese” afferma Ksenia, che ha lasciato l’Ucraina tre anni fa, ha un figlio adolescente che frequenta il Chierici ed è un medico, ma la sua laurea non è riconosciuta, perciò lavora al ristorante; ha iniziato la scuola da due mesi e si sta impegnando molto nello studio per avere più opportunità “perché non posso fare un altro lavoro finché parlo poco italiano”.
Naglaa e sua figlia sono arrivate dall’Egitto nel 2013, ora che la famiglia si è allargata e i figli frequentano la scuola, vuole migliorare l’italiano “per prima cosa per me stessa, ma anche per i miei figli, per aiutarli nello studio e in tutte le cose: senza parlare non si fa niente” sostiene Naglaa, che chiude con un apprezzamento per i suoi “insegnanti bellissimi e gentilissimi”.
In effetti i prof Gianfranco e Maria, volontari di Filef, professionisti in pensione, sono persone di straordinaria umanità e altruismo: Gianfranco Giorgini, dirigente della Ducati in pensione, maestro del lavoro, dopo 42 anni in azienda si laurea in filosofia e scrive un libro: “la vita è un viaggio, si fanno tante tappe, ora è la fase del noi e non c’è niente di più bello dell’esperienza in classe, di trovarsi e nell’incontro rendersi migliori”.
È di questo parere anche Maria Rangone, insegnante di italiano che in pensione ha preso una seconda laurea in psicologia: “per me è quasi un tornare alla scuola dei classici antichi: è un’educazione non è un’istruzione, al di là dell’apprendimento della lingua c’è un’educazione reciproca, c’è uno scambio culturale che abbatte i pregiudizi.”
Salutiamo e ringraziamo tutte con un enorme augurio di buona vita per tornare da Laura e chiederle dei laboratori in corso a Cella, Cavazzoli e Roncocesi nell’ambito del progetto “Ago, filo e spid – Cuciture territoriali, culturali e digitali a Cella, Cavazzoli e Roncocesi”, per sapere com’è nata l’idea e qual è la sfida.
“Sul territorio di Cella, Cadè e Gaida, frazioni di confine col parmense, c’è una presenza forte di famiglie straniere e in particolare di mamme con bambini, l’Architetto di quartiere che colse il bisogno di integrazione ci chiamò e così lavoriamo lì da vari anni in collaborazione con diverse altre realtà del territorio.
Partiti dalla parrocchia di Cella con il progetto “Mamme a scuola”, che accoglieva le mamme insieme ai loro bambini di età prescolare, la buona risposta ci ha incoraggiati a fare di più e a trasferire a Cella il laboratorio di cucito. Siccome da cosa nasce cosa, si è passati dal cucito ai laboratori creativi, aprendoli a donne italiane, per farne luoghi di incontro e conoscenza, di condivisione di saperi e tradizioni.
La sfida è stata esportare il ‘modello Cella’ anche a Cavazzoli e Roncocesi: “quando all’inizio della co-progettazione ci siamo trovati tutti insieme, sembrava molto complicato, ma ora a conclusione della prima parte possiamo dire che è andata bene, con una partecipazione importante, e stiamo impostando la ripresa a fine settembre che ci porterà a fine anno e al completamento della tessitura del ‘filo’ tra i tre territori”.





Una sfida vinta grazie al lavoro in rete e alla collaborazione tra Filef Reggio Emilia, il Circolo Arci Cella, la Società cooperativa sociale Madre Teresa, il Centro sociale Tasselli e il Circolo Rondò e alla collaborazione delle Parrocchie, del gruppo Le farfalle di Cella e dell’associazione Le libellule.
“Lavorare in rete è più faticoso – ammette Laura – ma solo così possiamo andare più lontano, raggiungere obiettivi importanti, la contaminazione dà sempre vita a qualcosa di nuovo: solo per fare un altro esempio, collaborare con UISP per insegnare le regole del cricket ai ragazzi della scuola media, trasferisce ben altri valori, al di là dello sport.”
Caro lettore, se sei arrivato fin qui – grazie! – hai trovato la risposta alle domande iniziali e scoperto come, nei quartieri di Reggio Emilia, si realizza un’integrazione dal basso, tra persone o gruppi di differenti culture che si basa sul principio di uguaglianza, sul riconoscimento della diversità e sull’interazione positiva, che è relazione, legame, scambio: voglia di comunità.
Scopri di più sui progetti in corso dell’Accordo di cittadinanza per spazi e reti di comunità nei quartieri San Prospero Strinati, Tondo, Gardenia, Tribunale – San Paolo, Santa Croce (ambito territoriale H)
Scopri di più sui progetti in corso dell’Accordo di cittadinanza per spazi e reti di comunità nei quartieri Gaida, Cadè, Cella, Roncocesi, Cavazzoli (ambito territoriale A)
****
Dal percorso “Parole di donne – Il rispetto”
IL RISPETTO di Anna (Vietnam)
In Vietnam, a scuola, in ogni classe c’è una frase che sempre spicca sopra la lavagna : “Tien hoc Le, hau hoc Văn“, questa frase significa: la prima cosa è imparare ad obbedire, la seconda è imparare a conoscere, nel nostro paese si considerano sempre la moralità e la gentilezza come molto importanti, è una delle lezioni del confucianesimo.
Quando ero bambina, la mia famiglia (che proviene dal Nord) mi ha sempre insegnato ad essere rispettosa, perciò, ai miei tempi, normalmente si vedevano i bambini inchinarsi sempre con le braccia conserte quando salutavano gli adulti, ma secondo me quel gesto non è davvero segno di reale rispetto.
Tutti i bambini sono abituati ad eseguire senza discutere qualsiasi cosa gli adulti decidano ed anche gli anziani sono convinti di avere sempre ragione, pertanto, gli anziani spesso non rispettano le opinioni dei bambini e impongono le loro opinioni, i giovani devono ancora mostrare rispetto ubbidendo agli anziani anche se non li rispettano davvero.
Attualmente le generazioni più giovani, stanno cambiando nella direzione opposta, pensando che gli anziani siano arretrati e non aggiornati per stare al passo con l’era digitale, quindi molto raramente ascoltano e accettano consigli dalle generazioni precedenti.
Secondo me il “rispetto” non è troppo difficile da apprendere se lo si sente con cuore aperto, non è solo una parola, ma per rispettare qualcuno, penso sia prima necessario sentirsi tutti allo stesso livello, essere “uguali”, poi “ascoltare” e quindi “apprezzare”.
Penso che dovremmo rispettare tutti, non solo le generazioni più anziane, ma anche i bambini. Un vero esempio è quello che ho trovato quando ho avuto modo di conoscere il metodo educativo “Reggio Emilia Approach”. Il tutor di pratica artistica (atelierista) non impone nessun modello al bambino, ma solo suggerisce ed ispira i bambini, lasciandoli liberi di creare seguendo le proprie idee, e quindi in questo modo le loro opinioni sono sempre rispettate.
Attraverso questo, bambini e adulti imparano gli uni dagli altri e si rispettano ancora di più.
Nguyen Que Huong